Commento a «Mai più»

03 Apr 2021

Questo post è un commento a «Mai più», un saggio a puntate scritto da Alessandro Baricco che potete leggere sul Post (una mezz’oretta di lettura in totale).

Un confuso storytelling

Baricco ha colto l’occasione della pandemia in corso per proseguire la sua riflessione sul cambiamento culturale generato dalla “rivoluzione” digitale.

La cosa per me un po’ fastidiosa di Baricco è la sua vaghezza. Come in The Game, questi articoli hanno un’aria a metà tra il profetico e la costruzione dell’immaginario. Nel cercare di descrivere questa “cultura che verrà” (o è già venuta, non si sa), Baricco fa riferimento a elementi che rimandano a pratiche e riflessioni già fatte. In quei momenti dà l’impressione di stare per introdurre il lettore a un qualcosa di nuovo, ad un approfondimento inedito, a una visione, ma il suo storytelling resta inconcludente, poco capace di incidere nell’immaginario (come dimostra l’apparente scarsità del dibattito pubblico scaturito da questo breve saggio a puntate).

In ogni caso, mi rispecchio a grandi linee nella strada indicata da Baricco, nonostante abbia qualche difficoltà a dare le indicazioni. Il suo riferimento ad una cultura che superi la razionalità, che abbracci il fare, echeggia la lotta per il riconoscimento di saperi (e non di un sapere, della Scienza). Ci invita a chiederci: cosa significa conoscere?

La sua insistenza, quasi un’ossessione, nei confronti della “rivoluzione” digitale è però ormai un po’ esagerata. Si concentra su quanto “tutto sia cambiato”, perdendo di vista quanto molto altro sia rimasto esattamente come era prima, talvolta con un aggravamento delle disuguaglianze pre-esistenti.

Capire un po’ di più

In un dibattito che troppo facilmente diventa una disputa tra apocalittici e integrati, è più utile provare a setacciare gli eventi e le invenzioni, provando individuare quegli elementi che più meritano le lodi di Baricco, abbandonando il generico atteggiamento adulatorio.

L’entusiasmo di Baricco si può assimilare parzialmente a quanti rimpiangono il Web delle origini, in cui l’espressività individuale si supponeva potenziata. In più, commenta l’impatto sulla “cultura Novecentesca”, che sarebbe cambiata a causa delle tecnologie digitali e di Internet. Che gli strumenti cambino il nostro modo di pensare, cambiando il nostro modo di fare, alimentando o sopprimendo alcune o altre possibilità, è cosa nota. (Ecco che ritorna l’elemento del fare in connessione con il pensare, anche questo già coinvolto in altre riflessioni e pratiche.)

L’effetto delle tecnologie digitali nel modificare la “cultura Novecentesca” non sembra sia stato però sufficiente, secondo Baricco, a cambiare completamente la società. Mentre nel 2018 scriveva che le istituzioni fondamentali della socialità delle società Novecentesche (scuole, chiese, partiti..) non avrebbero tardato a crollare come i giornali, le librerie e i cinema, oggi non sembra che siano sul punto di un cambiamento sostanziale. Baricco prova a giustificare questa situazione: la “rivoluzione” digitale è stata guidata quasi solo da uomini ingegneri americani bianchi; la rivoluzione non è riuscita ad abbracciare la poesia, quello che non può essere detto coi numeri.

Non sono personalmente molto convinto da queste tesi.

La possibilità di espressione artistica mi sembrano ugualmente modificate dalle tecnologie digitali: dalla Remix culture, alla potenziale estensione dell’espressività individuale offerta da economici strumenti per produrre e trasmettere contenuti. Che la “rivoluzione” sia guidata da una specifica fetta di popolazione non è di per sé falso; è una buona osservazione, ma sarebbe probabilmente più appropriato dire che la cosiddetta rivoluzione si è principalmente consumata nella cornice economica del capitalismo e neoliberismo degli ultimi 40 anni.

L’elefante nella stanza

La tecnologia non è neutra. Serve capire quali pensieri pensano altri pensieri, quali culture creano altre culture. Un forno può essere usato per fare una focaccia in casa o una pizza precotta e surgelata: la tecnologia è la stessa, ma i valori, i desideri e gli obiettivi che guidano l’uso della tecnologia sono molto diversi.

Baricco coglie alcune potenzialità nelle tecnologie digitali probabilmente perché attorno ad esse, molto più che intorno ad altri strumenti, è stato costruito un discorso che si ispira a valori di mutualismo, autonomia, creatività. Non è un caso che parta, nella sua narrazione di questa “rivoluzione”, da Stewart Brand: vuole trovare quelle radici nella Apple di Steve Jobs e negli eventi degli ultimi 50 anni. Ma non ci sono solo quelle radici: c’è anche il concime che ha permesso a quelle idee e valori di ingrandirsi, trasformarsi e diventare aziende con capitali spropositati e influenza sulle vite di milioni di persone.

In questo punto Baricco fallisce, forse per timore di essere troppo politico, intenzione comprensibile ma che un po’ penalizza il tentativo di modificare l’immaginario che cerca di compiere. Il lettore resta confuso, perso tra due riferimenti culturali opposti che, nell’intento di evocare sensazioni e costruire immaginari, da Baricco sono solo vagamente esplicitati.