Kin - parte prima

11 Apr 2021

Il sole stava tramontando e Lelia respirò l’aria tiepida della sera. Le scie degli aerei iniziavano a svanire allo zenit, nel blu profondo, mentre affioravano le prime stelle. Il dolce scirocco smuoveva la fitta peluria ambrata che le ricopriva i lati del collo, confondendosi con l’attaccatura dei capelli.

Lelia era nel suo sedicesimo anno d’età al compimento del quale avrebbe avuto inizio la sua vita adulta, come da tradizione nella sua comunità. Era tradizione celebrare quel momento di passaggio nelle loro vite intorno alla metà di maggio, mentre i giorni si facevano più lunghi e i frutti maturavano tra le fronde. La sua responsabilità verso la comunità e ogni specie vivente sarebbe stata completamente riconosciuta. Il suo pensiero andava spesso a quel momento. Una mano sporca di terra fangosa avrebbe segnato la sua fronte. Con un tuffo si sarebbe lanciata dalla scogliera contro l’acqua fredda del mare e ne sarebbe riemersa diversa, come una falena dalla sua crisalide. Al pensiero il cuore le batteva più forte e le guance le si intiepidivano.

Dalla sua nascita fino a quel momento solo altre due volte la comunità aveva scelto di accogliere nuove vite umane al proprio interno. Ogni giorno gli adulti dedicavano loro del tempo: qualcuno preparava i pasti, altri giocavano con loro o insegnavano loro ciò che serviva o che erano curiose di sapere. Spesso andavano a esplorare i campi e a conoscere i loro abitanti: le formiche nelle loro case sotterranee, i ciliegi che cambiavano a ogni stagione, le volpi schive, i ragni nei loro nidi filati. A volte, nonostante le raccomandazioni, non tornavano fino a dopo il tramonto. Allora sentivano le voci degli adulti gridare i loro nomi in lontananza e si affrettavano a ritornare. Incontravano i loro sguardi angosciati e l’espressione di sollievo sui loro volti nel vederle arrivare. Ogni volta si raccomandavano più della precedente.

Lelia si addentrava spesso nella zona umida della riserva con suo nonno Bruno. Quando il sole era basso nel cielo, camminavano verso la costa seguendo i ruscelli d’acqua dolce, fino ai fitti canneti. L’acqua lambiva i fusti e in qualche punto arrivava a bagnare il terreno limaccioso. Nella zona umida si parlava con gli sguardi, i gesti e pochissime parole. Bruno aveva mostrato alla nipote come immergere i piedi nell’acqua della palude e rimanere ferma, aspettando che le rane e i gli uccelli dalle gambe lunghe si abituassero alla loro presenza. Settimana dopo settimana, mese dopo mese, al loro arrivo le rane smettevano di saltare via e gli uccelli le osservavano per qualche momento, senza più allontanarsi in volo. Da bambina indicava i bruchi gialli sulle piante intorno agli specchi d’acqua. Doveva il suo nome a quelle creature con cui la sua famiglia aveva un legame profondo da generazioni. Li aveva visti filare i loro bozzoli di seta, cambiare misteriosamente al loro interno e poi volare via fuori da essi. Col tempo aveva smesso di sorprendersi quando vedeva le falene venir mangiate da un geco al sole o da un pipistrello sotto i raggi dalla luna piena.

L’odore pungente di spezie proveniente dalla cucina riportò Lelia a sé. Tutti intorno erano impegnati a preparare la cena; lei sparì correndo nel frutteto.


Bruno guardava dalla sua finestra la comunità impegnata nei preparativi per la cena. I recettori olfattivi sulle sue antenne e nelle sue narici si eccitarono e sentì un odore di rosmarino e alloro proveniente dalla cucina.

A metà del secolo era stato tra i primi umani a offrirsi per un intervento sperimentale trans-specie. Grazie alle lunghe antenne che sporgevano tra i suoi occhi era riuscito a conoscere le falene della zona umida meglio di ogni altra specie. Per lui era quasi come essere una di loro. Poteva sentire l’odore delle piante di cui si cibavano e stimarne l’abbondanza nell’area. Aveva scoperto che erano piante commestibili anche per l’uomo e le aveva integrate nella sua stessa dieta. Percepiva la presenza degli esemplari di falene in un raggio di alcune decine di metri, grazie ai feromoni che emanavano per attirare le falene del sesso opposto. Aveva sempre contezza della salute della specie nella riserva semplicemente mettendo piede nella zona umida. Le sue capacità erano state utili anche nelle collaborazioni con i biologi del posto, con cui per decenni aveva provato a migliorare le condizioni ambientali della riserva.

Ora, alla soglia dei cento anni, il suo ruolo nella comunità era far da guida ai più giovani. Si lasciò andare sulla poltrona sotto la finestra, per riposare. La giornata era trascorsa in fretta. Al mattino, le piccole e i piccoli del campo avevano ascoltato uno dei suoi racconti sulla fondazione, sulle origini e il senso del loro modo di vivere. La curiosità nei loro occhi era stata motivo di gioia e speranza, come ogni volta.

La lunga conversazione con Lelia, nel pomeriggio, l’aveva messo alla prova. Le ore trascorse con lei per accompagnarla al passaggio all’età adulta somigliavano a incontri di scherma, e di volta in volta la nipote imparava a conoscere le sue mosse.

«Mercurio mi dice della città» gli aveva detto, «di ciò che sta succedendo». Lo precedeva mentre camminavano su un sentiero polveroso. «Siamo fortunati ad averlo lì per noi. Mi chiedo che ci facciamo qui, lontani da tutto per i fatti nostri».

«Non siamo per i fatti nostri» aveva risposto, pronto a ricominciare con uno dei suoi discorsi. «Condividiamo la terra, l’aria e l’acqua con…»

«..con le creature della riserva, certo.» aveva continuato lei. «E siamo noi stessi creature della riserva, come dici sempre. Ma se le creature qui sono in pericolo, non lo siamo anche noi? Le conosciamo meglio di chiunque altro… ma forse è proprio questo il problema. Dovrebbe conoscerle anche qualcun altro, magari le persone che le mettono in pericolo». Lelia fischiò ad una capinera appollaiata su un fusto a pochi passi da lei. L’uccellino la guardò; lei mise una mano nella tasca del marsupio e mostrò il palmo pieno di briciole di pane e frutta secca. La capinera planò rapida sulle sue dita e iniziò a beccare. «Sai che è così, che ho ragione. Non è piacevole, ma è necessario».

Questa storia è ispirata al racconto "I bambini del compost", pubblicato in Chtulucene - Sopravvivere su un pianeta infetto di Donna Haraway.